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  • Immagine del redattoreEduardo Di Cristina

I Capitanei dei Comuni Italiani - Speciale Giovanni Melappioni

Siamo giunti al fatidico ultimo appuntamento con il percorso che ci ha portato grazie a Giovanni Melappioni alla scoperta dei Comuni italiani. Ed è proprio lo scrittore a donarci come promesso un ultimo esclusivo articolo che approfondisce i fatti che hanno portato i capitanei (i maggiori vassalli di un vescovo, in particolare di quello di Milano) a slegarsi dagli omaggi vassallatici e a farsi promotori del Comune.





Vi è mai capitato di poter esaminare dall’interno un meccanismo il cui funzionamento davate per assodato e scoprire invece circuiti, collegamenti, ingranaggi e brugole che non vi sareste aspettati, trovando meravigliosa tutta quella complessità? Funziona così anche con la ricerca storica. Ogni volta che approfondisco un qualsiasi argomento mi sento proprio come quel bambino al quale il semplice girare del trenino elettrico non basta più, e vuole sapere perché la motrice si avvia girando l'interruttore su ON.

Prendiamo per esempio la serie di pubblicazione che hanno trovato spazio nel portale IStoria. Da una lettura superficiale si potrebbe riassumere l’intero periodo con una frase che vada da “Mancando un governo centrale forte… “ a “… I cittadini presero a governarsi da soli”. Numerosi manuali scolastici, in effetti, trattando l’argomento nel poco spazio concesso dalle esigenze di sintesi spiegano così l’età comunale. In sé non è una risposta errata, piuttosto molto semplice. Anche troppo, diciamolo. Domandarsi quali formule, quali movimenti sociali, di popolo o di élite, abbiano davvero portato alla formazione delle prime autonomie cittadine ha la stessa valenza del prendere un giravite, fermare quel benedetto treno dal movimento ipnotico, e smontarlo tutto per carpirne i segreti. Partiamo da un testo di circa seicento anni fa.

Erat tunc mirabilis pax in Civitate Mediolani sed ecce Capitanei portarum sex Civitatis Mediolani, qui erant vassalli archiepiscopi, cogitaverunt omnino dominium Ducum, quod a tempore Beati Ambrosii usque ad ista tempora duraverat, seu annis 900 annullare: unde Capitaneus unius porte usurpavit ius staterae, alter capitaneus ius furni, alter capitaneus aliam dignitatem, sique dominium Ducum fere annullatum fiut.

“Vi era dunque una pace meravigliosa fra la cittadinanza di Milano ma ecco che i capitani delle sei porte della città (di Milano), che erano vassalli dell’arcivescovo, pensarono di annullare [nel senso di usurpare, non annullare] completamente il potere dei Duchi che perdurava dal tempo del Beato Ambrogio, ossia 900 anni [in realtà Ambrogio visse nella prima metà del IV secolo d.C.]: da cui il Capitano di una porta usurpava lo ius staterae [il diritto a stabilire i prezzi], il successivo capitano lo ius furni [ossia la tassa per l'utilizzo dei forni per il pane], il successivo capitano un altro diritto, sicché il potere dei Duchi fu del tutto cancellato.”





Il testo che avete appena letto rende bene l’idea della trasformazione che stava avvenendo in quegli anni in Italia. Chi scrive è frate Galvano Fiamma, autore di una cronaca cittadina scritta nei primi decenni del XIV secolo e occorre subito fare una premessa: oggi non si ritiene più attendibile la sua ricostruzione, troppo lacunosa e addirittura contraddittoria in diversi punti, però in questo caso specifico le sue parole nascono dall’analisi di un testo quasi "sacro": la Historia Mediolanensis di Landolfo Seniore. Una cronaca di tutt’altro rigore. Ecco le parole di Landolfo sullo stesso argomento.

Enim huius causa belli duces,[...] per quandam negligentiam amisso dominio. Itaque universus populus reverentiam et debitum, quod ducibus impendere solebat, puacis capitaneis, qui duces sublimeverant, exigebant.

"Infatti a causa della guerra... Per negligenza i duchi lasciarono andare (smisero di esercitare NdA) il potere. Cosicché il popolo nella sua interezza rendeva obbedienza e tributo, che era solito versare ai duchi, ai pochi capitanei che i duchi stessi avevano elevato (autorizzato in loro vece NdA)."


La differenza maggiore nella versione posteriore del Fiamma è che il primo attribuisce a un’usurpazione l’accentramento di poteri nelle mani dei capitanei mentre Landolfo parla di un passaggio più equilibrato e quasi nella continuità, ma non potrebbe fare altrimenti visto che è contemporaneo proprio di quelle famiglie che, in un modo o nell’altro, si ricavarono il proprio spazio nel vuoto dato dalla lontananza geografica ma anche culturale, dell’Impero e dei grandi nobili. A Modena, i da Gorgadella, discendenti dei milites vassalli di Matilde da Canossa nel 1060, nel corso del secolo successivo si slegano completamente dalla contessa fino a trovarli, nel 1168 inseriti nella vita politica modenesi come nobiles et sapientes Mutine con chiaro intendimento di far risaltare la loro appartenenza alla comunità prima di qualsiasi loro, non riportato, legame con altre entità.

La verità non è, come sempre, univoca. Ogni luogo, ogni realtà comunale ebbe i suoi particolarismi anche se i contatti tra città e le comunicazioni, più sviluppate di quanto l’errata concezione di un Medioevo retrogrado abbia lasciato supporre in età moderna, resero questa sorta di cambio della guardia ineluttabile ovunque vi fosse stata una società urbana afflitta dalla mancanza, appunto, di un governo centrale. In alcuni casi Communitas di cittadini si ritrovarono tra le mani la gestione di ampie porzioni del vivere civile, in altri il vescovo rimase punto di riferimento nonostante il declino del suo potere a seguito della Lotta per le investiture che ne ridimensionò in parte l’autorità secolare. Ovunque, però, è attestata l’affermazione di un ceto guerriero nell’ambito della politica, i capitanei delle cronache di cui sopra. Questi erano proprietari di terre che fornivano rendite cospicue, ma anche milites, comandanti di guerrieri permanentemente al loro servizio, detti milites secundi e anch’essi partecipi dell’Età comunale, e dunque in grado di imporre la propria volontà tra uomini che li seguivano non soltanto riconoscendone il potere ma, anche e forse soprattutto, il potenziale dal quale trarre, a loro volta, a sufficienza da poter tentare di elevarsi socialmente. I Capitanei non avevano soltanto, come in Milano, il controllo delle porte e dunque dei dazi e delle milizie che a esse facevano riferimento. In virtù della loro forza politica amministravano anche l’alta giustizia. A Monforte sono loro a decretare la messa al rogo degli eretici nel 1028, per esempio, ma più in generale ovunque nel tessuto urbano dove si stanno sviluppando le forme di governo comunali, essi conducono in guerra, sotto i propri vessilli gli armati della città, guidati da un primo inter pares che non è altri che la futura carica pubblica di Capitano del Popolo.

Fondamentale è il loro essere dipendenti dei vescovi, in tutto questo. Qui erant vassalli archiepiscopi, cito dalla cronaca. Questo è un passaggio chiave per l’intero articolo. Essi erano vassalli di Vescovi e Arcivescovi. Nel caso specifico dell’Arcivescovo Ariberto, dato che il testo è del 1039. Perché è importante sapere che fossero legati da vincoli al vescovo? Per diversi motivi che poi costituiranno le fondamenta della nascita dei Liberi Comuni. L’autorità del metropolita ha impedito per secoli che uno di questi influenti capipopolo potesse accaparrarsi il controllo totale della città. Ma non solo, basti pensare alla fiera opposizione dei vescovi a Arduino -decisiva alla definitiva caduta del signore d’Ivrea l’opposizione del vescovo Arnolfo di Milano, nel 1014- per farsi un’idea di quanto potere essi, signori delle città, detenevano e con quanta efficacia proteggessero i propri privilegi, appoggiando imperatori lontani contro i tentativi di accentramento locali. Nell’ambiente cittadino il cerchio entro il quale muoversi era davvero esiguo, e se gli scontri fra famiglie erano comunque all’ordine del giorno i risultati – quando ce n'erano – potevano davvero contarsi in poche decine di metri di terreno urbano controllato in più, o nell’acquisizione di una rendita dal contado, il possesso di un mulino e così via. Politicamente – con tutte le eccezioni del caso, chiaro – l’essere sotto la volontà del vescovo ha comportato una sorta di livellamento verso l’alto, una necessità di adeguarsi in un sistema basato sulle assemblee -di pochi-, sotto la direzione di uno a sua volta sottoposto all'autorità sia del papa che dell'imperatore. L’essere dunque vassalli del vescovo, negli anni embrionali dell’età comunale, è l’elemento chiave, il motorino interno della locomotiva, perché egli era l’autorità cittadina più ascoltata dato che intorno a tali figure trovò speranza il popolo nei secoli più duri della nostra storia. Il suo potere era tanto spirituale quanto temporale, fattivo; le sue ricchezze immense, e di conseguenza anche l’influenza politica, sociale (la costruzione di opere pubbliche, in primis le cattedrali, che davano lustro ma anche lavoro, era una delle attività principali di cui si occupava un vescovo) e militare. Ma dato che tutto questo terminava appena fuori dalle mura urbane ecco che si creava una sorta di stasi anti-tiranno, un blocco dove per forza di cose a comandare dovevano essere, pur pochi, comunque in tanti e mai nessuno prevaleva. Nelle campagne, infatti, altri milites occupavano con la propria autorità luoghi e spazi lasciati vacanti dalla lontananza (o dall’impossibilità gestionale) dei grandi vassalli imperiali.

Non siamo ancora al governo di “popolo”, una parola, questa, dalle varie sfumature. Nell’affermarsi dei ceti guerrieri non vennero certo annullate le spinte verso l’elevazione sociale dei boni homines, ossia di quello strato di popolazione in possesso di ricchezze pur nell’assenza di titoli aristocratici o prettamente militari. Questi ultimi erano sufficientemente forti da poter pretendere un proprio spazio e lo faranno sfruttando anch’essi la figura del vescovo ma in chiave tutt’altro che di servizio e clientelismo. I cittadini abbienti ma slegati dal sistema vassallatico, si misero alla testa delle numerose ondate di moti popolari, organizzarono (a proprio vantaggio) gli esclusi e in breve ruppero l’equilibrio capitanei-vescovo dando il via alla realtà comunale e al governo “popolare”, composto in genere da un consiglio cittadino posto sotto la direzione dei consoli, che dovevano coordinare le attività quotidiane, e che molto spesso erano coadiuvati da esperti “esterni” alla cittadinanza, giuristi itineranti che portavano la propria sapienza e la propria imparzialità – o almeno, avrebbero dovuto farlo.





Per concludere vi lascio con un paio di doverose precisazioni.

La prima è che non dobbiamo dimenticare che l’autorità del vescovo rimase comunque forte ancora per molto tempo. Sua la cavalleria che coadiuva (o contrasta, quando in disaccordo) la militia civitatis. E non è raro che sia suo il palazzo dal quale si amministra la città, almeno fino alla fine del XII secolo. La situazione muterà in maniera più radicale e concreta solo a partire dalla Pace di Costanza, nel 1183, la quale è utilizzata anche per indicare la conclusione della prima fase comunale.

La seconda è più un'avvertenza a non ritenere il discorso generalista. Ogni città ebbe la sua storia, e se è comunque possibile ravvisare similitudini, ogni entità costituisce un mondo a sé -e per fortuna, dato che questo non può che stimolare sempre nuove ricerche sul territorio-.

L’intento di questo articolo è quello di essere quanto più evocativo possibile, l’argomento è infatti troppo grande per poterlo definire in maniera esaustiva con una singola pubblicazione. Un arrivederci, allora, ai prossimi approfondimenti. Fonti minime.

- La vassallità maggiore del Regno italico, a cura di Andrea Castaagnetti, Viella 2001

- Giuseppe Albertoni, Luigi Provero, Il feudalesimo in Italia, Carocci 2003

- AA.VV. Chiesa e mondo feudale nei secoli X-XII, Vita e Pensiero, 1995

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